mercoledì 11 ottobre 2017



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LA MOSCA
di Chiara Raineri

Era molto probabilmente una mosca l’essere peloso e guardingo che stava appostato sulla finestra sopra il lavabo. Ma poteva anche essere un tafano, una cosa simile alle mosche ma che se ti morde ti fa un male della malora. In verità il ragazzo non aveva mai fatto caso a come erano fatti i tafani, quindi non poteva veramente saperlo. Però, in effetti, era maledettamente enorme per essere una mosca normale. Un moscone, doveva essere un moscone. Ma qual è la differenza? Certo il ragazzo non la sapeva. Sapeva solo che il morso di un tafano equivaleva a dolore sicuro e tanto gli bastava. Prese lo schiacciamosche appoggiato sul tavolo senza togliere gli occhi dall’insetto e con un colpo fulmineo il poveretto era già agonizzante su uno dei piatti appena lavati. La povera mosca, perché è di questo che si trattava, non potè neanche vedere cosa l’aveva colpita – le mosche non vedono il colore rosso – e precipitò nell’oblio della morte senza avere il tempo di rendersene conto. Il ragazzo con una faccia schifata prese il piatto e gettò la mosca nell’immondizia, poi tornò al tranquillo compito di insaponare e risciacquare i piatti che erano stati il contenitore del cibo che aveva permesso a un qualcerto abbiocco di impadronirsi di lui. Il ragazzo odiava lavare i piatti, i suoi pensieri in quella tiepida giornata di marzo, solo davanti al lavabo, senza la tv accesa perché era stata rotta dal cane, erano più o meno questi: qual è il senso di lavare questi piatti? Tanto dopo ci mangiamo dentro ancora e si sporcano di nuovo. È un po’ come fare il letto: tanto si disfa il giorno dopo. Ok magari il letto non è proprio come i piatti, cioè magari nei piatti hai mangiato qualcosa di unto e allora dopo farebbe un po’ schifo riutilizzarli. Però è una noia, sono meglio i piatti di plastica che non li devi lavare. Ma poi anche mangiare, che senso ha? Sì, se non mangi muori, però proprio far da mangiare. Si spendono ore magari a cucinare dei piatti bellissimi e buonissimi che poi vengono distrutti nel giro di due minuti e si trasformano in cacca. Alla fine è il destino di ogni cibo, buono o cattivo che sia. Be’ sempre se non lo vomiti… E poi bisogna mangiare sempre e se magari sei povero e hai sgobbato per avere un pasto poi magari non riesci a trovare quello dopo e soffri la fame. Che poi alla fine si muore tutti. Alla fine si diventa tutti uguali. Ma perché allora si deve vivere se poi tanto prima o poi si muore tutti?
Insomma domande che tutti prima o poi ci facciamo. Le tipiche domande che ci ricordano il nostro essere umani. Finì anche l’ultima scodella e lasciò le cose a sgocciolare, troppo svogliato per mettersi ad asciugarle. Gettò uno sguardo sconsolato alla tv, i profondi pensieri di prima per il momento dimenticati, e si diresse nella sua stanza. Se non avesse dimenticato il cellulare a casa di un suo amico – che doveva passare a ridarglielo – si sarebbe preso una buona mezz’ora di pausa per riprendersi dallo sfinimento post-piatti, invece si sedette alla scrivania e osservò apatico la lista degli esercizi di matematica da fare per il giorno seguente.
Perché bisogna studiare? Tanto poi la maggior parte delle cose ce se le dimentica dopo due giorni. Io non so proprio come fanno i professori a ricordarsi tutto, forse si riguardano un argomento il giorno prima di farlo in classe. E poi studi e ti prendi il diploma e poi la laurea e poi vai a lavorare e poi ti sposi eccetera, sempre le stesse cose, e poi muori. Tutti muoiono. E se muoio che me ne faccio dei logaritmi? A cosa mi serve sapere la Divina Commedia se tra un po’ vado fuori e mi mette sotto una macchina? Cioè nel Medioevo vivevano lo stesso anche senza sapere i dannati logaritmi. E anche se li avessero saputi tanto ora sono morti. Perché si deve vivere se tanto poi va tutto sprecato? Cioè, magari si lascia qualcosa a qualcuno o si fa qualcosa di importante come un quadro o un libro, però anche le persone dopo di loro muoiono. E tra due miliardi di anni il sole esploderà e allora non ci sarà più niente.
Il ragazzo fece una pausa da questi pensieri incredibilmente pessimisti chiedendosi perché li stesse anche solo formulando. La sua mente non era mai stata così attiva. Se solo avesse potuto vedere o anche solo concepire i milioni di processi che si stavano attuando contemporaneamente nel suo cervello in quel momento sarebbe rimasto sconvolto per la vita. Ma si sa, l’essere vivente è limitato, ma un grande passo avanti è proprio quello di sapere di esserlo, come disse quel tale morto un bel po’ di tempo fa. Ma torniamo al ragazzo, che in quel momento stava fantasticando sui vari modi che una persona aveva per morire. Ce n’erano davvero tanti. Anzi, si poteva morire per qualsiasi cosa, anche la più insignificante se usata nel modo giusto. Si rese conto che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto uccidere anche lui una persona, ovviamente con tutte le conseguenze del caso. Non che ammazzare una persona fosse nella sua lista di cose da fare, solo non sarebbe stato poi così difficile. Come con la mosca di prima. L’aveva uccisa dopotutto, aveva spento una vita. Be’, poco male, tanto le mosche – o i tafani – non servono a niente. Sono buone solo a ronzare sulla cacca. Forse però c’è qualcuno che le mangia, le rane o gli uccelli. Quindi comunque per morire devono morire. Però magari quella mosca avrebbe salvato una rana che stava morendo di fame, che a sua volta avrebbe salvato un uccello o chissà cosa. Se quella mosca non fosse morta, cosa le sarebbe successo?
Improvvisamente si sentì terribilmente in colpa per quello che aveva fatto poco prima e si precipitò in cucina a frugare nel pattume alla ricerca dell’esserino. Lo trovò e lo appoggiò sul tavolo e si mise a osservarlo. Non c’era dubbio, era proprio morta. Ora che la osservava da vicino non gli faceva più così schifo. Riusciva a vedere chiaramente gli occhi rossi e opachi e la bocca a proboscide e i peli sul corpo e le ali sottili e piene di venature e le zampette anch’esse pelose. Era così piccola, ma era stata viva, aveva volato, aveva respirato, insomma, aveva funzionato bene nonostante fosse un essere così misero. Tutto funzionava bene nella natura, tranne rari casi, e tutto era al proprio posto. Come era possibile che un organismo tanto ben fatto fosse stato creato con il solo scopo di scomparire un giorno? Va bene, poi si fanno i figli – o le larve – e si continua la stirpe, ma poi muoiono anche loro!
Il ragazzo guardava la mosca incantato e ogni secondo scorgeva un nuovo dettaglio. La sua vita non gli aveva mai permesso di osservare così bene e approfonditamente una mosca. Che poi, quella era solo una mosca fra tante, chissà come dovevano essere le altre. Ogni mosca ha dei dettagli che le altre non hanno, come le persone. A osservare dettagliatamente tutte le mosche del mondo non ce la si farebbe mai e poi mai. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra sopra al lavello e osservò il non troppo alto pioppo che stava tra la casa e la strada. In quel momento gli sembrò di vedere distintamente e nella loro interezza ogni singola foglia appartenuta a quella chioma verde, ogni venatura e ogni sfumatura di colore che costituivano l’essenza di quell’essere vivente e immobile che chiamiamo comunemente albero e che, senza probabilmente saperlo, dava casa e nutrimento a innumerevoli altre vite grandi o piccole che erano.
Ma gli alberi capiscono quello che gli succede intorno? Non hanno un cervello quindi non possono pensare, però se gli rompo un ramo lo sentiranno? Be’, meno male che non pensano, altrimenti chissà che noia stare tutta la vita nello stesso posto.
I suoi pensieri furono nuovamente interrotti quando posò per caso lo sguardo su una ragnatela costruita nello stretto spazio vuoto tra il bancone della cucina e il muro. Si avvicinò e poté vedere il padrone di casa immobile in un angolo come se fosse in attesa. Al che ebbe un’idea, prese la mosca e la fece cadere con precisione su quel sottile intrico di fili, rimanendone appiccicata. Allora successe quello che sperava: il ragno – uno di quelli con le zampe lunghe e sottili e il corpo minuscolo che non si sa mai qual è la testa e quale la coda che si trovano sempre in tutte le case – si mosse circospetto verso il nuovo arrivato e, dopo averlo studiato qualche secondo, iniziò a trafficarci sopra con le zampe. Il ragazzo osservava affascinato senza pensare a niente mentre le azioni che la natura aveva programmato per il piccolo ragno venivano eseguite sotto i suoi occhi. Dopo non molto tempo la mosca era rivestita da un sottile strato di seta e a quel punto il ragno si fermò e rimase immobile, eseguendo un qualche ignoto rituale conosciuto solo alla stirpe delle aracnidi in quel determinato punto della cattura di una preda.
Constatando che il piccoletto non avrebbe dato altro spettacolo nel breve tempo, il ragazzo si alzò e si diresse di nuovo in camera sua, questa volta ignorando completamente l’immacolato quaderno aperto e gettandosi direttamente sul letto che sua madre quella mattina aveva rifatto.
Be’ almeno uccidere quel tafano non è stato completamente inutile. Chissà quanto mangerà quel ragno adesso.
Si sentiva quasi orgoglioso di quello che aveva fatto e il senso di colpa per l’uccisione dell’insetto si era completamente dissolto. Una vita sacrificata per alimentare un’altra vita. Era probabilmente ciò che veniva volgarmente chiamata “legge del più forte”.
Il ragazzo aprì gli occhi e fissò un puntino nero sullo spigolo del comodino finché questo non schizzò via e si andò a posare sul vetro della finestra di fronte. Il ragazzo si alzò a sedere. Per un attimo ebbe l’irrazionale e puerile dubbio che quella sul vetro fosse la mosca di prima scampata chissà come dalle grinfie del ragno e andò persino ad accertarsene, ma quando fu in cucina trovò il ragno e la sua preda immobili nella stessa identica posizione in cui li aveva lasciati.
Tanto se si uccide una mosca ce ne sarà sempre un’altra a prendere il suo posto. Ma si rese conto che se avesse avuto la possibilità di osservare da vicino anche l’altra mosca avrebbe sicuramente notano un dettaglio, anche infinitesimale, che era unico di quell’essere e che non era  presente su quella che aveva ucciso. La mosca sulla finestra era unica, così come quella la cui storia era già giunta al termine, così come ogni altra mosca ed essere vivente che popolava il mondo su cui era appoggiato. Anche il ragazzo era unico, diverso per grandi o piccoli dettagli dagli altri esseri umani che abitavano il pianeta e nella storia non c’era mai stato nessuno completamente identico a lui, o nell’aspetto, o nella mentalità o nel luogo e nei piccoli gesti che riempivano la sua vita e il suo essere unico nell’universo. Si sentì inebriato da questa sua unicità e ringraziò di essere vivo nonostante tutti i pensieri di prima, nonostante un giorno il suo essere si sarebbe perso per sempre.
In quel momento a distrarlo dai suoi pensieri, per destino – per chi ci crede – o per semplice coincidenza, suonò il campanello di casa e rispose al citofono l’amico che era venuto a restituirgli il cellulare dimenticato. Fu un gran sollievo per il ragazzo, che sentiva di aver sforzato troppo il cervello quel pomeriggio, e si recò felicemente e incondizionatamente nella prigione che egli stesso si era costruito grazie al contributo di altre migliaia di esseri unici che stavano vivendo il mondo insieme a lui in quello che in certe parti del globo è considerato ventunesimo secolo.
 

LA FARFALLA LA LUCERTOLA E I RAGNI
DI CHIARA RAINERI



Non si potrà mai trovare il silenzio.
Ovunque tu vada nel mondo dei rumori disturberanno sempre le tue orecchie.
Ci sono rumori buoni, come il canto degli uccelli, lo scorrere dell’acqua, il fruscio delle foglie agitate dal vento.
Ma ci sono anche rumori cattivi. Sono i rumori artificiali, provocati da cose che non dovrebbero esistere, come il rombo dei motori delle auto, lo stridore dei macchinari di una fabbrica, i suoni inutili e fastidiosi di una televisione accesa, le grida immotivate e insolenti di bambini viziati e adulti egocentrici…
E ci sono dei momenti nella mia vita in cui questi rumori non mi permettono di vivere.
Cerco di distrarmi con qualcos’altro ma mi sembra di impazzire.
Ci sono momenti nella mia vita in cui i rumori buoni e la solitudine diventano un’esigenza e la loro mancanza mi provoca quasi del dolore fisico.
E così decido di andarmene. Le montagne purtroppo sono troppo lontane dal luogo in cui vivo, ma c’è un posto che posso facilmente raggiungere in bicicletta. Lo chiamo il mio posto segreto. Non è proprio segreto, ma è abbastanza isolato e poco frequentato.
È come un ponte ad arco di mattoni, largo meno di un metro, senza protezioni, il cui lato sinistro dà su un canale per l’irrigazione largo e non molto profondo e il lato destro si affaccia su un ruscello immerso nella vegetazione circa tre metri più in basso che sparisce al suo interno. È un luogo riparato da alte acacie e querce e attorno è circondato da vasti campi coltivati e solo una piccola strada sterrata che costeggia il torrente immettendosi in una strada asfaltata di campagna stretta e sconnessa.
Io mi siedo sempre al centro del ponte con le gambe a penzoloni nel vuoto rivolto verso il torrente. Ogni tanto mi sdraio e sto bene. Il rumore dell’acqua mi rilassa e mi sento protetto all’ombra dei rami. Il punto in cui mi sdraio di solito mi permette di vedere una porzione di cielo e spesso mi sorprendo nel constatare che lì il cielo sembra avere un colore più intenso e luminoso che da qualsiasi altra parte.
Oggi cerco quella pace.
Vengo qui con la mia solita bicicletta gustandomi sul viso l’aria ancora tiepida di metà settembre e non pensando a niente per il momento, anche se provo una sorta di ansia dentro di me.
E purtroppo, come mi accade spesso, i miei timori sono fondati.
Sale dentro di me una sorta di astio ribollente, una rabbia infondata ma travolgente, sento il desiderio di urlare e pestare i piedi, come quando da piccolo c’era qualcosa che non mi piaceva.
Ma non faccio nulla di tutto questo e mi limito a rimanere in piedi più immobile di una statua, sorreggendo la mia bici con entrambe le mani sul manubrio, squadrando con sguardo omicida il vecchio che cammina sul mio ponte con due cani da caccia al seguito.
Cammina beato, sicuro di sé, ha una lunga barba completamente bianca e un paio di stivali di gomma. I suoi cani ruzzano tutt’intorno ma non si curano minimamente di me, che non mi sono mosso né ho distolto lo sguardo dall’uomo.
È lui il mio problema, lui e tutti gli altri, tutti i produttori di rumori cattivi sono il mio problema. Vorrei che se ne andasse, che si muovesse dal mio posto, che sparisse semplicemente.
Ora cammina sul rivone che costeggia il canale, ma io continuo a non muovermi. Lui mi ha notato e ogni tanto mi fissa. Spero di averlo messo a disagio. Appena lo reputo abbastanza lontano metto giù il cavalletto della bicicletta e mi arrampico sul rivone. Scavalco un pezzo di recinzione di legno marcio e finalmente sono nel mio posto.
Respiro forte come se fossi entrato in un’altra dimensione e mi guardo intorno estasiato. Mi sdraio al centro e chiudo gli occhi assaporando i rumori buoni che sento intorno a me.
Apro gli occhi e il cielo mi sorride incorniciato dalle foglie ovali delle acacie. È di un colore incantevole, così bello come non lo vedevo da mesi.
Dopo un po’ mi metto a sedere e noto che davanti a me si è posata una farfalla. Le sue ali sono rivolte esattamente nella mia direzione così posso vederle nella loro interezza. Sono grandi e bellissime, colorate di marrone scuro e decorate da una grande linea rossa che si congiunge al centro e piccoli puntini bianchi.
Io la osservo e lei non si muove. È come se facesse apposta a rimane re lì ferma per farsi ammirare da me. Mi muovo leggermente e lei vola via. La guardo finché non la perdo di vista e ancora mi sdraio soddisfatto di quello che ho visto. Ma ancora quando mi rimetto a sedere lei è lì con le ali spiegate, che apre e chiude come se mi stesse chiamando. Ora è anche più vicina di prima e riesco a osservarla ancora meglio. Mi sento incredibilmente orgoglioso di essere stato scelto per ammirare quella meraviglia e non le stacco gli occhi di dosso finché non si stanca di essere adulata e mi lascia come un’amante crudele.
È bello stare qui. Mi sento connesso con la vita, con il mondo. È come se ci fosse qualcosa di diverso in questo luogo, qualcosa di non ancora del tutto contaminato.
Sorrido e guardo dove prima c’era la farfalla. Al suo posto ora sta appostata una lucertola verde. È immobile e mi fissa. Vedo chiaramente il suo ventre alzarsi e abbassarsi per il respiro concitato. È in allerta. Io rimango immobile e la guardo a mia volta. Passa del tempo, poi finalmente lei si muove. In uno scatto è già a metà strada tra dove era prima e dove sono io. Non mi stacca gli occhi di dosso, sembra che mi stia studiando. Si avvicina ancora e poi ancora un altro po’, fino ad essermi a pochi centimetri dalle scarpe. Io non mi sono mosso. Quando sta quasi per toccarmi rovescia la testa e mi guarda da capo a piedi, poi, come se fosse soddisfatta, si volta e sparisce in un lampo.
Cos’è appena successo? Una lucertola era curiosa di scoprire cosa fossi? Chissà, magari non aveva mai visto un essere umano nella sua vita. Magari voleva solo passare per attraversare il ponte. Ma forse era proprio la curiosità che l’ha spinta a fare una cosa così potenzialmente pericolosa. Perché sono così sorpreso? Dopotutto mica solo gli umani possono provare emozioni come la curiosità.
Mi sento dentro una sensazione di felicità indescrivibile. Sento come se avessi appena assistito a qualcosa di straordinario, di unico. Ho ancora l’immagine nella mente dei suoi occhi così incredibilmente intelligenti e vispi incollati nei miei. Cosa avrà pensato di me? Cosa avrà appreso di questo essere così grosso e rozzo e dai colori così strani?
Vorrei che tornasse, vorrei stabilire un altro legame con lei. Ma non tornerà, me lo sento. Le cose più belle sono destinate a durare un battito di ciglia.
Sto ancora osservando il punto in cui è scomparsa la piccola creatura quando sento un rumore cattivo provenire dalla stradina davanti a me. È un’auto che si sta dirigendo nella mia direzione. Spero con tutto il cuore che passi senza notarmi, ma le mie speranze vanno completamente in frantumi quando questa si ferma e ne scende una donna. È la stessa donna che avevo notato prima fare quella stessa strada correndo. Spero ancora più ardentemente che non sia scesa per me ma ancora una volta rimango deluso.
La fisso mentre mi viene incontro, lei con un sorriso cordiale e io con uno sguardo diffidente e quasi intimidatorio. Mi avvolgo le gambe con le braccia in un gesto di difesa mentre inizia a camminare sul ponte.
«Ti disturbo?»
Certo che mi disturbi, non si vede? Per un attimo penso che voglia solo passare quindi mi scosto un po’, ma lei si siede e sospiro mentalmente.
«No, no»
Le rispondo, ma dentro di me sto urlando.
«Ti ho visto prima qui tutto solo e ho pensato che stessi male.»
«Sto bene»
Voglio che se ne vada. Voglio evitare ogni genere di conversazione. Voglio rimanere solo. Perché non lo capisce? Distolgo lo sguardo e mi giro dall’altra parte.
«Ah, piacere, io sono Laura.»
Mi tende la mano. Esito un attimo e poi gliela stringo bofonchiando il mio nome.
«È un bel posto questo. Anche a me piace molto la natura»
Non dico niente. Non la guardo nemmeno. Vattene via.
«Sai, io sono un’assistente sociale. Lavoro spesso anche con i ragazzi. Ti do il mio numero così se vuoi possiamo parlare un  po’»
La guardo basito. Lei mi sorride. Mi viene quasi da ridere. Cara assistente sociale, saresti dovuta venire da me qualche anno fa, forse allora mi avresti potuto aiutare, ma adesso che ho fatto tutto da solo non hai più motivo di esistere nella mia vita.
Mi scappa un sorriso sarcastico e guardo il ruscello che scorre indifferente sotto di me.
«Cos’è, hai paura che mi butti di sotto?»
Lei perde il sorriso e non dice niente.
«Ci ho pensato qualche volta, a buttarmi di sotto. Non è molto alto, non penso che riuscirei a morire. Forse se mi lasciassi cadere di testa… Ma, in effetti, questo non è proprio il posto più adatto al suicidio, sarebbe meglio quel ponte grande sul fiume. Ok, ho capito, sarà meglio che vada là allora.»
Mi alzo e faccio finta di andarmene. Voglio prendermi gioco di lei.
«No!»
Urla, ma non si alza e guarda giù.
«Vertigini? Eh, è un bel problema. Ma forse le vertigini sono l’unica cosa di cui non soffro…»
La guardo negli occhi e vedo il terrore dentro di essi. È divertente. Faccio una piccola risata e poi mi siedo di nuovo.
«Stavo scherzando, volevo vedere la tua reazione.»
Lei si porta una mano al petto e sospira di sollievo, poi si mette a farmi una ramanzina infinita di cui non ascolto una singola parola.
Infine acconsento a prendere il suo numero a patto che lei se ne vada e appena è risalita in macchina – che tralaltro è guidata dal vecchio di prima – lo cancello senza pensarci due volte.
La sua presenza ha rovinato l’atmosfera che si era creata e ha portato qui anche delle grosse zanzare tigre di cui ero riuscito a liberarmi. Penso con rammarico alla farfalla e alla lucertola che, spaventate da tutto quel rumore, non sarebbero forse più tornate. Mi sento infastidito, ma in un certo senso anche grato, almeno la gente si preoccupa ancora degli altri al giorno d’oggi.
Mi alzo e mi sgranchisco le gambe. Poi mi metto in piedi sull’orlo del ponte dalla parte del ruscello, con le punte delle scarpe appena sporgenti, e mi piego per vedere meglio cosa c’è sotto. Non c’è molta acqua e si distingono chiaramente i sassi che compongono il letto e una piccola pavimentazione di mattoni che sparisce sotto al ponte. Forse da qui potrei davvero morire. Basterebba fare un tiffo di testa, come in piscina. Sarebbe così facile… Se io cadessi adesso e morissi probabilmente andrei su qualche giornale e la tizia di prima lo verrebbe a sapere e anche il vecchio. Probabilmente avrebbero i rimorsi per tutta la vita di non essere stati in grado di aiutarmi. Sarebbe una punizione esemplare per chi infrange le regole del silenzio. Sorrido un poco pensando alla loro faccia mentre leggono l’articolo sul giornale, poi mi raddrizzo.
Cammino fino a raggiungere la discesa piena di vegetazione che porta giù nel ruscello. C’è un camminamento visibile e lo percorro fino all’acqua. Con l’aiuto delle mani mi calo giù nel letto e riesco a passare su un muretto che non è stato lambito dall’acqua. Con questo muretto non riesco a entrare nell’arco, ma almeno posso guardarci dentro. Anche se è una costruzione umana lo trovo comunque bellissimo. La penombra e la vegetazione aldilà lo fa sembrare come un portale per un altro mondo. Se non ci fosse l’acqua ci andrei dentro, ma comunque dovrei fermarmi all’uscita perché c’è un discreto salto che dà su un laghetto profondo. La sensazione di antico che emana quella costruzione mi fa sentire a mio agio e ancora di più la vegetazione che l’ha colonizzato.
Poi scorgo con la coda dell’occhio un movimento sulla parete di fianco a me. Inizialmente penso si tratti di capelli o peli che si muovono al vento, perché è proprio questo che sembrano. Ma no, non  sono capelli. Sono una moltitudine di ragni ammassati e aggrovigliati insieme che si muovono probabilmente a causa della mia presenza. È quel genere di ragni di campagna con il corpo ovale piccolo e le zampe lunghe e sottili.
È uno spettacolo senza paragoni. Guardando anche sulle altre parti dell’arco noto altri assembramenti di ragni, alcuni in movimento e altri no. Che staranno facendo? Perché lo staranno facendo? Rimango incantato a osservare quella colonia di piccole vite dimenarsi e contorcersi gli uni sopra gli altri, pensando a quanto sia incredibile la natura che per ogni essere ha creato il suo preciso e unico modo di approcciarsi col mondo e con gli altri esseri viventi. Molte persone hanno paura o provano disgusto per i ragni, ma io ora non posso provare altro che fascino.
Me ne vado per lasciarli in pace e risalgo la riva. Decido che è ora di andare, anche per evitare un altro sgradito incontro con le persone di prima, casomai decidessero di ritornare.
Mentre attraverso il ponte con ancora l’immagine dei ragni nella mia testa, sul pezzo di recinzione che divide il ponte dal rivone si posa la farfalla di prima. La guardo incantato e completamente incapace di muovermi. È come se volesse farsi ammirare un’ultima volta o forse mi vuole implorare di non andarmene. Mi sento gli occhi umidi e un senso di calore nel cuore che forse non avevo mai provato nella mia vita. Poi lei vola via e mi lascia lì con le lacrime negli occhi, pronta a non rivedermi mai più.
Mi giro un’ultima volta e urlo «Grazie!» verso gli alberi e il ruscello. Mai nella mia vita potrò dimenticare quello che mi è successo oggi, quelle piccole vite diverse che ho incontrato, ognuna così differente dall’altra, ma ognuna non meno degna di vivere su questa terra.
Ora sto meglio. Ho soddisfatto quella voglia di rumori buoni che mi aveva fatto tanto soffrire prima e il mio cuore è più leggero.
Prendo la mia bicicletta e mi avvio verso casa.

Storia realmente accaduta.

  LA MOSCA di Chiara Raineri Era molto probabilmente una mosca l’essere peloso e guardingo che stava appostato sulla finestra...