LA MOSCA
di Chiara Raineri
Era molto
probabilmente una mosca l’essere peloso e guardingo che stava appostato sulla
finestra sopra il lavabo. Ma poteva anche essere un tafano, una cosa simile alle
mosche ma che se ti morde ti fa un male della malora. In verità il ragazzo non
aveva mai fatto caso a come erano fatti i tafani, quindi non poteva veramente
saperlo. Però, in effetti, era maledettamente enorme per essere una mosca
normale. Un moscone, doveva essere un moscone. Ma qual è la differenza? Certo
il ragazzo non la sapeva. Sapeva solo che il morso di un tafano equivaleva a
dolore sicuro e tanto gli bastava. Prese lo schiacciamosche appoggiato sul
tavolo senza togliere gli occhi dall’insetto e con un colpo fulmineo il
poveretto era già agonizzante su uno dei piatti appena lavati. La povera mosca,
perché è di questo che si trattava, non potè neanche vedere cosa l’aveva
colpita – le mosche non vedono il colore rosso – e precipitò nell’oblio della
morte senza avere il tempo di rendersene conto. Il ragazzo con una faccia
schifata prese il piatto e gettò la mosca nell’immondizia, poi tornò al
tranquillo compito di insaponare e risciacquare i piatti che erano stati il
contenitore del cibo che aveva permesso a un qualcerto abbiocco di impadronirsi
di lui. Il ragazzo odiava lavare i piatti, i suoi pensieri in quella tiepida
giornata di marzo, solo davanti al lavabo, senza la tv accesa perché era stata
rotta dal cane, erano più o meno questi: qual è il senso di lavare questi
piatti? Tanto dopo ci mangiamo dentro ancora e si sporcano di nuovo. È un po’
come fare il letto: tanto si disfa il giorno dopo. Ok magari il letto non è
proprio come i piatti, cioè magari nei piatti hai mangiato qualcosa di unto e
allora dopo farebbe un po’ schifo riutilizzarli. Però è una noia, sono meglio i
piatti di plastica che non li devi lavare. Ma poi anche mangiare, che senso ha?
Sì, se non mangi muori, però proprio far da mangiare. Si spendono ore magari a
cucinare dei piatti bellissimi e buonissimi che poi vengono distrutti nel giro
di due minuti e si trasformano in cacca. Alla fine è il destino di ogni cibo,
buono o cattivo che sia. Be’ sempre se non lo vomiti… E poi bisogna mangiare
sempre e se magari sei povero e hai sgobbato per avere un pasto poi magari non
riesci a trovare quello dopo e soffri la fame. Che poi alla fine si muore
tutti. Alla fine si diventa tutti uguali. Ma perché allora si deve vivere se
poi tanto prima o poi si muore tutti?
Insomma
domande che tutti prima o poi ci facciamo. Le tipiche domande che ci ricordano
il nostro essere umani. Finì anche l’ultima scodella e lasciò le cose a
sgocciolare, troppo svogliato per mettersi ad asciugarle. Gettò uno sguardo
sconsolato alla tv, i profondi pensieri di prima per il momento dimenticati, e
si diresse nella sua stanza. Se non avesse dimenticato il cellulare a casa di
un suo amico – che doveva passare a ridarglielo – si sarebbe preso una buona
mezz’ora di pausa per riprendersi dallo sfinimento post-piatti, invece si
sedette alla scrivania e osservò apatico la lista degli esercizi di matematica
da fare per il giorno seguente.
Perché bisogna
studiare? Tanto poi la maggior parte delle cose ce se le dimentica dopo due
giorni. Io non so proprio come fanno i professori a ricordarsi tutto, forse si
riguardano un argomento il giorno prima di farlo in classe. E poi studi e ti
prendi il diploma e poi la laurea e poi vai a lavorare e poi ti sposi eccetera,
sempre le stesse cose, e poi muori. Tutti muoiono. E se muoio che me ne faccio
dei logaritmi? A cosa mi serve sapere la Divina Commedia se tra un po’ vado
fuori e mi mette sotto una macchina? Cioè nel Medioevo vivevano lo stesso anche
senza sapere i dannati logaritmi. E anche se li avessero saputi tanto ora sono
morti. Perché si deve vivere se tanto poi va tutto sprecato? Cioè, magari si
lascia qualcosa a qualcuno o si fa qualcosa di importante come un quadro o un
libro, però anche le persone dopo di loro muoiono. E tra due miliardi di anni
il sole esploderà e allora non ci sarà più niente.
Il ragazzo
fece una pausa da questi pensieri incredibilmente pessimisti chiedendosi perché
li stesse anche solo formulando. La sua mente non era mai stata così attiva. Se
solo avesse potuto vedere o anche solo concepire i milioni di processi che si
stavano attuando contemporaneamente nel suo cervello in quel momento sarebbe
rimasto sconvolto per la vita. Ma si sa, l’essere vivente è limitato, ma un
grande passo avanti è proprio quello di sapere di esserlo, come disse quel tale
morto un bel po’ di tempo fa. Ma torniamo al ragazzo, che in quel momento stava
fantasticando sui vari modi che una persona aveva per morire. Ce n’erano
davvero tanti. Anzi, si poteva morire per qualsiasi cosa, anche la più
insignificante se usata nel modo giusto. Si rese conto che, se solo avesse
voluto, avrebbe potuto uccidere anche lui una persona, ovviamente con tutte le
conseguenze del caso. Non che ammazzare una persona fosse nella sua lista di
cose da fare, solo non sarebbe stato poi così difficile. Come con la mosca di
prima. L’aveva uccisa dopotutto, aveva spento una vita. Be’, poco male, tanto
le mosche – o i tafani – non servono a niente. Sono buone solo a ronzare sulla
cacca. Forse però c’è qualcuno che le mangia, le rane o gli uccelli. Quindi
comunque per morire devono morire. Però magari quella mosca avrebbe salvato una
rana che stava morendo di fame, che a sua volta avrebbe salvato un uccello o
chissà cosa. Se quella mosca non fosse morta, cosa le sarebbe successo?
Improvvisamente
si sentì terribilmente in colpa per quello che aveva fatto poco prima e si
precipitò in cucina a frugare nel pattume alla ricerca dell’esserino. Lo trovò
e lo appoggiò sul tavolo e si mise a osservarlo. Non c’era dubbio, era proprio
morta. Ora che la osservava da vicino non gli faceva più così schifo. Riusciva
a vedere chiaramente gli occhi rossi e opachi e la bocca a proboscide e i peli
sul corpo e le ali sottili e piene di venature e le zampette anch’esse pelose.
Era così piccola, ma era stata viva, aveva volato, aveva respirato, insomma,
aveva funzionato bene nonostante fosse un essere così misero. Tutto funzionava
bene nella natura, tranne rari casi, e tutto era al proprio posto. Come era
possibile che un organismo tanto ben fatto fosse stato creato con il solo scopo
di scomparire un giorno? Va bene, poi si fanno i figli – o le larve – e si
continua la stirpe, ma poi muoiono anche loro!
Il ragazzo
guardava la mosca incantato e ogni secondo scorgeva un nuovo dettaglio. La sua
vita non gli aveva mai permesso di osservare così bene e approfonditamente una
mosca. Che poi, quella era solo una mosca fra tante, chissà come dovevano
essere le altre. Ogni mosca ha dei dettagli che le altre non hanno, come le
persone. A osservare dettagliatamente tutte le mosche del mondo non ce la si
farebbe mai e poi mai. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra sopra al lavello
e osservò il non troppo alto pioppo che stava tra la casa e la strada. In quel
momento gli sembrò di vedere distintamente e nella loro interezza ogni singola
foglia appartenuta a quella chioma verde, ogni venatura e ogni sfumatura di
colore che costituivano l’essenza di quell’essere vivente e immobile che
chiamiamo comunemente albero e che, senza probabilmente saperlo, dava casa e
nutrimento a innumerevoli altre vite grandi o piccole che erano.
Ma gli alberi
capiscono quello che gli succede intorno? Non hanno un cervello quindi non
possono pensare, però se gli rompo un ramo lo sentiranno? Be’, meno male che
non pensano, altrimenti chissà che noia stare tutta la vita nello stesso posto.
I suoi
pensieri furono nuovamente interrotti quando posò per caso lo sguardo su una
ragnatela costruita nello stretto spazio vuoto tra il bancone della cucina e il
muro. Si avvicinò e poté vedere il padrone di casa immobile in un angolo come
se fosse in attesa. Al che ebbe un’idea, prese la mosca e la fece cadere con
precisione su quel sottile intrico di fili, rimanendone appiccicata. Allora
successe quello che sperava: il ragno – uno di quelli con le zampe lunghe e
sottili e il corpo minuscolo che non si sa mai qual è la testa e quale la coda che
si trovano sempre in tutte le case – si mosse circospetto verso il nuovo
arrivato e, dopo averlo studiato qualche secondo, iniziò a trafficarci sopra
con le zampe. Il ragazzo osservava affascinato senza pensare a niente mentre le
azioni che la natura aveva programmato per il piccolo ragno venivano eseguite
sotto i suoi occhi. Dopo non molto tempo la mosca era rivestita da un sottile
strato di seta e a quel punto il ragno si fermò e rimase immobile, eseguendo un
qualche ignoto rituale conosciuto solo alla stirpe delle aracnidi in quel
determinato punto della cattura di una preda.
Constatando
che il piccoletto non avrebbe dato altro spettacolo nel breve tempo, il ragazzo
si alzò e si diresse di nuovo in camera sua, questa volta ignorando
completamente l’immacolato quaderno aperto e gettandosi direttamente sul letto
che sua madre quella mattina aveva rifatto.
Be’ almeno
uccidere quel tafano non è stato completamente inutile. Chissà quanto mangerà
quel ragno adesso.
Si sentiva
quasi orgoglioso di quello che aveva fatto e il senso di colpa per l’uccisione
dell’insetto si era completamente dissolto. Una vita sacrificata per alimentare
un’altra vita. Era probabilmente ciò che veniva volgarmente chiamata “legge del
più forte”.
Il ragazzo
aprì gli occhi e fissò un puntino nero sullo spigolo del comodino finché questo
non schizzò via e si andò a posare sul vetro della finestra di fronte. Il
ragazzo si alzò a sedere. Per un attimo ebbe l’irrazionale e puerile dubbio che
quella sul vetro fosse la mosca di prima scampata chissà come dalle grinfie del
ragno e andò persino ad accertarsene, ma quando fu in cucina trovò il ragno e
la sua preda immobili nella stessa identica posizione in cui li aveva lasciati.
Tanto se si
uccide una mosca ce ne sarà sempre un’altra a prendere il suo posto. Ma si rese
conto che se avesse avuto la possibilità di osservare da vicino anche l’altra
mosca avrebbe sicuramente notano un dettaglio, anche infinitesimale, che era
unico di quell’essere e che non era
presente su quella che aveva ucciso. La mosca sulla finestra era unica,
così come quella la cui storia era già giunta al termine, così come ogni altra
mosca ed essere vivente che popolava il mondo su cui era appoggiato. Anche il
ragazzo era unico, diverso per grandi o piccoli dettagli dagli altri esseri
umani che abitavano il pianeta e nella storia non c’era mai stato nessuno
completamente identico a lui, o nell’aspetto, o nella mentalità o nel luogo e
nei piccoli gesti che riempivano la sua vita e il suo essere unico
nell’universo. Si sentì inebriato da questa sua unicità e ringraziò di essere
vivo nonostante tutti i pensieri di prima, nonostante un giorno il suo essere
si sarebbe perso per sempre.
In quel
momento a distrarlo dai suoi pensieri, per destino – per chi ci crede – o per
semplice coincidenza, suonò il campanello di casa e rispose al citofono l’amico
che era venuto a restituirgli il cellulare dimenticato. Fu un gran sollievo per
il ragazzo, che sentiva di aver sforzato troppo il cervello quel pomeriggio, e
si recò felicemente e incondizionatamente nella prigione che egli stesso si era
costruito grazie al contributo di altre migliaia di esseri unici che stavano
vivendo il mondo insieme a lui in quello che in certe parti del globo è considerato ventunesimo secolo.